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Calciomondo

Nuova batosta per l’Italia del calcio nel Regno Unito: il triste fine ciclo della Juve

Da Londra, Simone Filippetti*

Mai una partita ininfluente è stata più importante. Prendete un girone a caso di Champions League e una partita di fine novembre che è irrilevante per la classifica, tra la prima e la seconda del girone già matematicamente qualificate; mescolate gli ingredienti e il cocktail regala un sapore amaro: il Chelsea asfalta la Juventus e la fa apparire per quello che in Europa davvero è. Poca cosa. Nella notte dello Stamford Bridge si capisce perché da oltre un quarto di secolo non vince quella coppa che è ormai un ossessione, ma soprattutto “ne dovrà mangiare di pasta” la Juve prima di sperare di vincere qualcosa fuori dall’Italia, parafrasando il suo capitano un po’ sbruffone.

E il Regno Unito si prende l’ennesima rivincita sul fin troppo auto-celebrativo e compiacente calcio italiano, ispirandosi a un famoso proverbio spagnolo: “La vendetta è un piatto da servire freddo”. Nel giro di una settimana, Nazionale e Juve subiscono umiliazioni. Dopo la Titanica Belfast, la Serie A si infrange a Londra, nel bellissimo stadio del Chelsea, curiosamente costruito accanto a un ex cimitero, che a pochi chilometri più a sud di Wembley, ormai un ricordo sbiadito.

Si è smarrita la Nazionale, dopo soli sei mesi. Si è smarrita, ma questo da tempo, la Juventus, ex regina della Serie A, campionato troppo poco sfidante per partorire campioni europei. Facile esaltarsi per un 4-0 casalingo in Champions contro il dopolavoro ferroviario russo (peraltro sbloccato da un rigore sbagliato e fatto curiosamente ripetere); facile esaltarsi per una vittoria all’Olimpico, anche lì frutto di soli rigori senza un tiro in porta. Quando poi l’asticella si alza un po’, la mediocrità e la bolla unapologetic in cui il club italiano vive, anche per effetto di troppi media compiacenti, appare in tutta evidenza. Il Re è nudo.

Sono lontani gli anni felici delle due finali, finali comunque perse ma che per un qualche strano meccanismo mentale il tifoso medio juventino vive come un vanto e come una vittoria. I bianconeri del 2021 invece sono arrivati a Londra con la superficialità e il menefreghismo di chi è già qualificato nel girone, obiettivo minimo stagionale.

Per carità, uscire sconfitti coi Blues ci sta. Perdere 4-0 ci sta un po’ meno. Perdere senza mai aver tirato in porta, la cronaca registra unica e prima parata del portiere inglese all’85’, semplicemte non è accettabile. Con tutto che la rosa della Juve costa all’incirca quanto quella del Chelsea: 12 milioni all’anno a Deligt, un terzino esaltato dai media come un nuovo Baresi, mentre ieri è stato un colabrodo e non risulta ci sia la fila di club per volerlo (bravo Raiola a vendere i suoi protetti come top player); 7 milioni all’anno per Rabiot, su cui anche i media per una volta tanto concordano: è inguardabile.

Si può arrivare in finale per caso, o per fortuna, ma non si diventa campioni per caso. E i Blues di Tuchel, lui sì un allenatore sottovalutato, sono un altro pianeta. Marziani contro la scolastica squadra di Max, che gioca per difendere gli 0-0: il suo è un calcio vecchio, passato, anacronistico. Un tempo era brutto ma vincente (in Italia), ora nemmeno quello: brutto e perdente. Fosse stato richiamato dopo aver allenato un grande club estero, avrebbe avuto senso. Ma gli ultimi due anni Allegri li ha passati a guardare il calcio dal salotto di casa, stipendiato dalla Juve.

Nella terribile notte londinese, poi, il metronomo Jorginho era dalla parte sbagliata: gioca con il Chelsea e non era lo smarrito centrocampista visto con la Nazionale nelle ultime partite. Il centrocampo Juve, invece, si poggia sull’involuto Bentancur, un tempo pupillo di Allegri che per lui preannunciava un futuro Pirlo. A proposito del Maestro, viste le figure barbine sui campi che contano, tanto valeva tenersi l’inesperto allenatore, mandato allo sbaraglio l’anno scorso e poi subito bruciato: sarebbe costato 20 volte meno di Allegri (32 milioni in 4 anni), e si sarebbe potuto provare a costruire un progetto attorno ai giovani, al quale si sarebbero perdonate figuracce come quella di Stamford Bridge.

Per l’ennesima coincidenza del destino a sancire l’inadeguatezza della Juventus in Europa, è stata ancora una volta la Perfida Albione, la stessa dove quattro anni fa i bianconeri persero la seconda finale dell’Era Allegri: si sarebbero dovuti leggere i segnali. Nella gelida Cardiff, sebbene fosse giugno, si è chiuso un irripetibile ciclo della Juve, vincente ma non abbastanza per alzare la Coppa. Da lì in poi, si sono succeduti decisioni fatali e disastrose delle dirigenza. A fine partita, un furioso Pavel Nedved, scuro in volto, veniva accompagnato fuori dallo stadio. Da dentro la cura, arrivavano all’esterno i cori dei tifosi juventini, in trasferta, che inneggiavano la squadra: a prima vista un segnale di sostegno e affetto. A ben vedere, però, un tifoso vero ieri sera avrebbe dovuto fischiare. Perché, certe volte, solo azzerando si può ricostruire.

* Giornalista del Sole 24 Ore

“Simone Filippetti, giornalista del Sole 24 Ore basato a Londra, è autore e commentatore tv. Ha vissuto a Milano e New York. E’ autore di numerosi libri: Serenissimi Affari (Marsilio, 2014); I Signori del Lusso (Sperling&Kupfer 2019); e il recentissimo Un Pianeta Piccolo Piccolo (Il Sole 24 Ore 2021)”

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